Category: Memories


Orizzonti

Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi, alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità.

Così dice il Piccolo Principe, ed in un mazzo di parole riassume uno dei grandi temi dell’essere umano, quello dell’aspettativa.

Fil rouge del nostro tempo…nel bene e nel male, come ci insegna il notoriamente abbacchiato Leopardi, che riduce la bellezza del dì di festa al momento magico in cui suddetto dì di festa non è ancora venuto:

 

“Or la squilla dà segno
Della festa che viene;
Ed a quel suon diresti
Che il cor si riconforta.

[…]

Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Recheran l’ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farà ritorno.”

Ora, al di là delle battute, chè mi si arricciano anche un po’ i polpastrelli ad indulgere nel definire il povero Giacomo “notoriamente abbacchiato”, è inoppugnabile che sia tutta questione di attitudine mentale.

E anche senza essere un poeta romantico o un bambino proveniente da un misterioso asteroide dai dubbi abitanti si può facilmente capire quanto sia dannatamente vero.

Nel momento in cui c’è l’aspettativa di qualcosa di bello è quasi come essere già lì, in mezzo alla cosa bella…certo, il rischio di un’amara delusione è moltiplicato, ma anche il rallegramento morale dei momenti, delle ore, dei giorni magari addirittura, lo è.

Viceversa, se la prospettiva è di qualcosa di brutto già il tempo presente è un po’ adombrato dallo spauracchio.

Alla facciaccia del “carpe diem”….per carità, noi esseri umani saremo anche “qui ed ora” ma senza un “poi” il nostro qui ed ora è un po’ meno colorato, pieno.

Il momento presente è l’unica cosa che possediamo. Certo, come negarlo. Eppure…siamo così sicuri che il momento presente non sia, almeno un pochino, fatto anche di momenti futuri?

Perchè, personalmente, il mio modo di approcciarmi alla giornata, al momento, non è neutro. Se nella mia testa sta per succedere qualcosa di bello, ma banalmente, ho dei piani interessanti, stimolanti, più gradevoli della media, per la serata, con tutta probabilità passerò delle ore migliori, essendo il mio tempo già permeato del mio più o meno conscio fantasticare in positivo.

Viceversa, e qui cado a peso morto nel caruggio del nostro Giacomo, se la mia prospettiva è negativa, e non parlo di chissà cosa ma, banalmente, del dover ricominciare la settimana lavorativa, c’è una probabilità piuttosto elevata che mi rovini, almeno parzialmente, una giornata durante la quale tecnicamente dovrei essere di buon umore.

Non è una cosa volontaria, e non credo di essere l’unica…è proprio che nei fili del tempo all’interno delle nostre menti di esseri umani è tutto un gran mix. L’oggi porta dietro un po’ di ieri, e il domani se ne sta lì con le sue lenti colorate a dare una sfumatura a tutto quanto.

Certe volte, persino i ricordi sono mescolati all’aspettativa….quelle cose che ricordiamo come dolci, anche se poi sono state una sonora delusioni, in virtù del valore di speranza che abbiamo loro dato a suo tempo…o al contrario, quelle prospettive che si tingono di nero ( o di rosa) sulla base di un’emozione provata a suo tempo.

Il tutto per dire cosa? Niente, se non che sarebbe salutare avere almeno una proiezione positiva al giorno.

Assunto che funzioniamo così, perchè non seguire il flusso e possibilmente cercare di star bene?

L’8 Marzo dell’anno scorso io mi trovavo a Borgo Ticino con il mio allora migliore amico, e leggendo le notizie accarezzavo l’idea di non dover tornare a Genova il lunedì successivo per lavorare.

Buffo come la città che per anni ho desiderato al punto da lanciarmi in cambi di rotta semi folli in nemmeno due anni si sia trasformata per me in un inferno in terra dal quale fuggire.

Non la città in sè, chiaro, ma la mia vita lì…quella sì che verso l’inizio dell’anno scorso era difficile da sopportare.

Ad ogni modo, quell’8 marzo sera Davide ed io ce ne stavamo seduti davanti ad una bottiglia di idromele, e io, di fronte all’ironico “ben venuti in zona rossa” ho quasi gioito. Perdonala, Signore, perchè non sapeva quel che faceva…!

Ci sono andati giorni perché mi rendessi conto di che cosa davvero significava.

Ricordo come le prime sere io e Davide ci vedevamo di soppiatto, e aveva quasi un suo fascino l’essere in giro a piedi per le vie deserte e decentrate a berci una birra su una panchina, sentendoci un po’ delinquenti e un po’ partigiani nell’affermare il proprio diritto a stare vicino alla propria persona preferita.

Ricordo anche come sghignazzando dicevo “Dopo “L’amore ai tempi del colera”, ecco a voi il nuovo colossal, “L’amicizia ai tempi del Covid”!” mentre camminavamo guardinghi, pronti a lanciarci in un cespuglio o ad estrarre la lista della farmacia qualora un’auto della polizia ci avesse intercettati (e ne giravano nel primo lockdown, fidatevi).

Ricordo come le giornate a casa dei miei genitori, dopo che per l’ennesima volta avevo voluto tornarci sperando che lì sarei riuscita a scappare dai miei demoni, non passavano più, e di come spendevo le ore a comporre riga dopo riga, una io e una Lui, una storia immaginaria dove i nostri alter ego potessero essere chi desideravano.

Ricordo come il giovedì cominciavo ad essere contenta, perchè il venerdì sarei andata “in trasferta” da Lui, in pace per 2 giorni su 7, almeno.

Il primo lockdown è durato circa 3 mesi, e mi sembrava dovesse non finire più. Questo secondo sta durando ben di più…e meno male che durante il primo non mi hanno detto che in questo modo di saremmo passati un anno, a meno di un debole spiraglio di gioia estiva.

Mi trovo a pensare che di tutte le cose che avrei potuto immaginare da bambina, trovarmi a vivere una pandemia mondiale non lo avevo proprio calcolato.

Non sembra vero, non lo sembra ancora. Dovrà pur finire, tornerà tutto normale…prima o poi…ma quando? Nonostante l’insofferenza alle limitazioni e il nervoso che mi fa venire aprire qualunque mezzo di divulgazione, perchè ormai il sensazionalismo è padrone ovunque, provo quasi una rassegnazione di fondo che mi porta a pensare che, appunto, prima o poi potremo tornare a vivere normalmente, non si può fare altro che aspettare.

Praticamente, è stato un anno di non-vita. Un anno passato in punizione, senza svaghi.

Però personalmente a me il covid e tutto quel che ne consegue ha anche portato qualcosa di buono: da sempre una volpe in fatto di relazioni, chissà se senza questo periodo di stravolgimento di abitudini e certezze prima o poi ci sarei arrivata che valeva la pena di fare il passo successivo con il mio pluricitato “Lui” ?

A distanza di quasi un anno, rotolandoci sul divano, tra una puntata di cartoni e un raptus di solletico… “Averlo saputo che con te stavo così bene, lo facevo prima!” mi è uscito. Ed è proprio vero, vero come le risate fino alle lacrime del solletico.

Come si suole dire…non tutti i mali vengono per nuocere.

Freedom

Questo secondo lockdown mi sta mandando ai matti.

Non c’è una data di fine, non ci sono certezze…solo tanta confusione, tra colori, numeri, regole, scappatoie, pareri, desideri.

Tutto si confonde, e il non avere certezze è letale.

Mi manca da morire la possibilità di fare piani, viaggiare, andare in palestra, andare a cena fuori.

Mi sento come se mi avessero tolto a tempo indeterminato il diritto di vivere anzichè sopravvivere.

Tutto si riduce a lavoro (se sei fortunato e non lo hai perso) e casa, casa e lavoro … la vita dov’è mentre galleggio tra un devo, un dovrei ed un “non posso fare altro”?

E non è questione di un mese, 2 mesi, 3 mesi…è quasi un anno che andiamo avanti così, e non ci sono date nè certezze.

Ho bisogno di vedere la montagna e la neve, congelarmi fino al midollo e poi sciogliermi lentamente in un vecchio rifugio legnoso con un grande camino scoppiettante, mentre sbocconcello salumi e formaggi montani.

Mi manca passeggiare per le vie illuminate di una certa grande citta sabauda rimpiangendo stupidamente i mesi durante i quali ci ho vissuto, immaginando le vite che stanno dietro le porte e tra le strade, fantasticando su quale avrebbe potuto essere la vita di un’altra me, raggiungendo nei meandri del centro storico un molto folkloristico locale sovietico nel quale condividere una cena con il mio compagno.

Avrei una voglia matta di pianificare una gita estemporanea in Valle d’Aosta, trovare un B&B con il parquet per terra, partire con le sigle dei cartoni animati in sottofondo, fare una passeggiata serale ad Aosta, prendere la seggiovia il giorno dopo e andare su, quanto più su possibile in un solo giorno di permanenza.

Al momento tutto ciò sembra un miraggio irraggiungibile, un lusso immeritato ed un capriccio…ma è quello che facevamo prima, è quello che ricompensa la settimana passata a vendere il proprio tempo…no?

Se non posso lanciarmi in desideri tanto aristocratici, allora mi ridimensiono: mi manca da morire andare in palestra durane la pausa pranzo o dopo il lavoro e sudare via lo stress della giornata, tornare a casa con i muscoli spezzettati come un lego molto complesso e avere voglia di stare sul divano tutta la sera, anzichè starci perchè, cosa vuoi, non si può fare altro.

Vorrei poter scrivere alla mia povera vittima di tutti i giorni appena dopo pranzo che no, oggi non ne ho voglia di cenare a casa, andiamo al Mag? E sentirmi rispondere tra una sorriso sardonico e un’occhiata complice che è inutile che io tutti i giorni mi lamenti che non stiamo a dieta, se poi sono la prima a proporre di andare a scassarci hamburger, patatine e birra come ricompensa di una giornata storta, o come premio per una giornata particolarmente dritta.

Chissà se tra i sintomi del Covid-19 c’è insofferenza, rifiuto, ansia e demotivazione? Forse dovrei fare un tampone, a scanso di equivoci….

 

Bassifondi_di_Coruscant

“Due matti non fanno uno sano. Alle volte però sono bravi a tenersi la mano”

La nebbia accarezzava la strada nera, una luna grossa come un faro si premurava di fare luce alle poche anime in circolazione, spettri indigeni di una città in disuso.

Dalle finestre del locale trasudava una luce calda, rossastra, risultato del mescolarsi delle lampade gialle con il loro rilesso sui tavoli di legno scuro, intrisi della birra e delle storie degli avventori più o meno abituali.

All’interno, un piccolo microcosmo si muove e bercia: le risa, le chiacchiere e le questioni combinate ad un vecchio rock che fuoriesce dagli altoparlanti compongono la sinfonia della serata.

I tavoli sono quasi tutti occupati, il bancone gremito di gente. Quante vite che si intrecciano per un istante e nemmeno se ne accorgono. Quante sliding doors si aprono e si chiudono ogni millisecondo e nessuno le nota. Ma è la regola del cosmo, ogni istante condiziona il seguente, anche se nessuno ci sta facendo caso.

In un angolo un po’ nascosto, un tavolo rotondo incastonato tra un divanetto e una credenza ospita un uomo e una donna.

Lui è robusto, capelli rasati e barda scura. Ha gli occhiali, e la pelle olivastra.

Lei è minuta, capelli neri e pelle pallida.

Con un bicchiere di whiskey tra le dita si osservano, e senza parole si stanno parlando.

Sono molto diversi, ma hanno gli stessi occhi.

Occhi scuri, occhi di persone che ripensano al loro museo di esperienze andate e persone perdute con un misto di nostalgia, rabbia e affetto.

Non hanno mai fatto pace coi loro demoni, mai la faranno. Non hanno interesse ad abbracciare i propri scheletri nell’armadio, ma nemmeno a combatterli senza requie.

Sono bambini smarriti? Naufraghi nel loro mare? Può essere, ma sanno anche che finchè saranno in grado di farsi una risata ripensando alle loro piccole miserie, anche se magari il mondo degli eletti non li capisce, non saranno perduti.

Ho letto da qualche parte che oggi, 10 Ottobre, è il “Mental Health Day”.
Non so se sia vero, e onestamente se anche lo fosse devo ammettere che il proliferare smodato di questi “Giorno del Qualcosa” mi fa un po’ ridere. Mi sembra l’ennesima vittoria del conformismo stile London Bridge Dawn di Elliot.
Comunque, disfattismi acidi a parte, il tema mi è caro, e sentendomi chiamata in causa voglio spendere due parole in merito.
Non mi metterò a fare ragionamenti particolarmente innovativi, ne sono consapevole. Non sento il bisogno di scrivere perché ritengo di poter accrescere lo stato attuale dell’arte, ma solo perché ci sono cose che ho vissuto sulla mia pellaccia, e un conto è sentirle raccontare e magari annuire con teoretico trasporto, un conto è attraversare la merda puzzolente che comportano, mi si passi il francesismo.
Allora, dicevamo: salute mentale. Già la parola è indicativa: SALUTE.
Si potrebbe quindi dedurre che l’assenza di questa sia equiparata a malattia.
Vero…ma non verissimo: il malato mentale, alla massa, e per una volta non lo dico in senso dispregiativo, non fa venire in mente una persona sofferente che necessita cure, quanto uno stramboide dal quale è meglio girare al largo.
E’ qui che si crea la dolorosa dicotomia: se sei un individuo rispettabile e degno di allocare a te stesso lo spazio che la tua massa occupa non sei malato di mente, è conditio sine qua non, e se non hai influenza, appendicite, unghie incarnite o verruche devi fare quello che la società si aspetta (giustamente) da te. Lavorare, essere mediamente socievole, essere mediamente gentile, mediamente resistente, mediamente occupato, dinamico eccetera eccetera eccetera.
Non dico che non sia giusto, per carità: il mondo funziona così.
Se invece non sei in grado di essere un campione di media virtù, e non hai nemmeno due linee di febbre a giustificarti….beh, la cosa è diversa. Sarai compreso, per carità. Poverino, ha l’esaurimento nervoso. Poverino, è depresso. Poverino, prende gli psicofarmaci…..La gente quasi lo sussurra. Poverino, certo, poverino finchè non devi essere considerato una persona normale che sta solo attraversando un brutto periodo anziché un pazzoide.
Poi magari pecco di poca fiducia nella gente, può anche essere.
Però voglio dire la mia esperienza, brutta, nero su bianco.
Tempo fa sono uscita con amici, siamo andati a fare un aperitivo. All’aperitivo ho esagerato con la focaccia e coi cuculli, a chi non capita.
Peccato che poi a me sia anche capitato di sentirmi così abominevolmente putrida e orrenda dentro da non avere la forza il giorno dopo di uscire dalle coperte, io e il grasso del fritto che mi sembrava trasudasse dai miei maledetti pori.
Peccato che quel giorno, infrasettimanale, io sia stata davvero così male da desiderare mille influenze in cambio.
Peccato che nel mio tormentarmi e struggermi per l’accaduto non sia riuscita veramente a uscire di casa, e al mio autofustigarmi per il cibo abbia dovuto aggiungere quello per non aver avuto la forza di andare al lavoro.
Ma è chiaro che non avrei mai potuto telefonare alla mia dottoressa e dirle “Senta, io fisicamente sto bene, ma ho problemi col cibo, DCA tipo anoressia, ieri ad un aperitivo per i miei canoni ho esagerato di brutto e la cosa mi ha comportato un crollo di nervi tale che sono le 10 passate e io sono ancora nel letto a rotolarmi e piantarmi le unghie addosso da tanto che mi faccio schifo. Me lo fa il certificato?”
Primo, mi sarebbe piaciuto vedere se me lo avrebbe fatto.
Secondo, mi sarebbe piaciuto vedere cosa ci avrebbe eventualmente scritto sopra.
Terzo, mi sarebbe piaciuto vedere i miei datori di lavoro cosa avrebbero pensato, perché ho idea che nessuno avrebbe fatto questioni a passarmi la giornata di malattia (mentale), ma forse al termine del periodo di prova non sarei stata confermata perché, sì, persona valida….ma come fai a fare affidamento su una con dei problemi?

Non sono nemmeno certa di cosa esattamente voglia arrivare a sostenere.
E non c’è polemica in realtà: il tono aggressivo è l’equivalente delle zanne snudate di una bestia ferita.
Dico solo che per fortuna della maggioranza delle persone, la maggioranza delle persone non capisce. Non si può capire senza averlo vissuto.
Ci sono diversi “livelli di gravità” per le malattie fisiche: non è necessario avere un tumore al quarto stadio per essere comprensibilmente momentaneamente al tappeto.
Allo stesso modo, avere un problema che si aggira infido per le sinapsi non rende necessariamente un Joker come quello spettacolare di Phoenix, che nel suo dolore è veramente pericoloso e fa davvero venir voglia di girargli alla larga, però può rendere momentaneamente inabili alla all day life.
Momentaneamente, quanto realmente.
E’ questo che a mio parere non è chiaro a chi, fortunello, non ci è mai passato…

Memento

Genova-nel-cuore

Un anno fa non ero Genovese.

Non ero Genovese, non lavoravo, e non avevo una direzione. Solo tanta confusione, tanto tempo libero, tanta tristezza e pochi soldi.

Quel 14 Agosto mio padre, che un anno fa non era in pensione, aveva un appuntamento di lavoro presso un importante cliente genovese, il cui ufficio si trova in via Ponte Reale.

Io avevo deciso di accompagnarlo, perché, pur non essendo genovese, già amavo questa città e coglievo al balzo ogni possibilità di spendere tra i suoi vicoli qualche ora, fantasticando su come sarebbe stato bello poterli percorrere sempre, senza prendere un treno o una macchina per raggiungerli.

Pioveva in un modo assurdo, ma assurdo davvero. Mi ricordo che nell’aspettare mio papà per andare a pranzo mi sono rintanata in un negozio di abbigliamento in piazza Banchi, bagnata fradicia e infreddolita. Avevo le scarpe completamente imbevute d’acqua e le calze zuppe nonostante l’ombrello.

A terra praticamente c’era non più una strada ma un torrente in piena.

Allora ricordo di aver constatato che ad Alessandria, anche quando piove tanto, non piove così. A Genova sembra che piova da sotto, di lato, di traverso…ovunque. L’ombrello è più una consolazione mentale che una vera protezione dal bagnato. Quest’anno, che sono genovese, lo confermo: quando piove qui lo fa con arroganza.

Sempre più fradicia mi sono poi spostata a Sottoripa, dove avrei dovuto incontrare mio papà, sperando arrivasse presto.

Idea non originale, dato che il porticato era strabordante di persone fradicie come me.

Solo qualche coraggioso osava l’attraversamento della strada, per passare da una sezione dei portici all’altra, e solo dopo debita riflessione sul ciglio della zona coperta.

Proprio uno di questi, un uomo di età indefinibile dai capelli bianchi e un indubbio odore di vino, mentre mi passava accanto, si rivolgeva ad un amico, seduto a fare aperitivo al tavolino del bar nei pressi del quale stavo stazionando: “Il Ponte! Il Ponte è crollato, uh belin!”

E poi un vociare di inconsapevoli, che evidentemente come me avevano sentito le sue parole: “Il Ponte? Come il Ponte?? Uh Diu….” E gente che tirava fuori il cellulare.

E io, ignorante oltre che inconsapevole, che non sapevo nemmeno cosa cercare, che nome mettere.

Ho colto nelle chiacchiere di altri il nome “Morandi”: a ricerca effettuata, ancora niente di scritto. Ho cominciato a pensare che si trattatasse dei deliri di un ubriacone.

È stato in quel momento che mio padre mi ha raggiunta, zuppo poco meno di me.

Abbiamo cominciato a strutturare un piano per raggiungere un ristorante di suo gusto non più fradici di quanto già fossimo, e il piano ha incluso lo scendere a prendere la metro.

Nel mentre, proprio mentre aspettavamo al binario, mi è ritornata in mente la butad del tizio odoroso di vino: “Papi, ma sai che ho sentito uno dire che il ponte è crollato?”

“Quale ponte?”

“Boh, mi sembra il Morandi”

“Ma va!! Si saprebbe.”

Ostenta sicurezza, ma intanto estrae il cellulare e fa una ricerca: ebbene sì, il ponte è crollato per davvero.

Nel frattempo la metro era arrivata e noi siamo saliti. Mio padre, un po’ più serio del suo solito, si è appeso alla maniglia e ha continuato a leggere la notizia.

“In momenti come questi ti rendi conto di quanto sia sottile il filo che separa una giornata come un’altra da una tragedia”.

Discorsi del genere sono rari fatti da lui, per cui mi sono messa sull’attenti e l’ho guardato interrogativa: ripeto, oltre che inconsapevole ero anche ignorante.

Il genitore ha spiegato: “Sul Morandi noi ci siamo passati stamattina. Circa un quarto d’ora prima che andasse giù”

Lì per lì non ho razionalizzato.

Poi, dopo poco, ho razionalizzato eccome. Noi, che di Genova non siamo, ma che quel ponte lo abbiamo percorso percorriamo quando vogliamo raggiungere i miei amati vicoli e il primo mare in linea d’aria, proprio il 14, quando casualmente stavamo andando a Genova, abbiamo attraversato il viadotto poco prima che si aprisse verso il baratro. Pochissimo prima. Se avessimo fatto poca coda in più all’autogrill a fare il salto della morte saremmo stati noi.

Non ho avuto la forza di pensare a cosa avrebbe provato mia mamma, nell’apprendere da un tg la notizia che in un giorno come un altro suo marito e sua figlia erano stati vittime casuali del destino, mentre invece ha solo ricevuto un misterioso messaggio “Stai tranquilla, stiamo bene”, apparentemente senza senso, non essendo la notizia ancora arrivata.

E poi ho pensato a chi quei dieci minuti di coda in più li ha fatti, a chi è partito poco dopo di noi, a chi passava sotto al Morandi in quel momento…A loro e a quelle madri, sorelle, mariti, figli, fidanzati, che dopo aver appreso della notizia il messaggio “Stiamo bene” lo hanno aspettato con il cuore in gola e non lo hanno mai ricevuto.

Ci ho pensato e sono impallidita.

Per fortuna quasi mai mi è capitato di dover pensare alla morte, mia o di altri, perché davvero mi passa vicino…ma quel 14 Agosto dell’anno scorso è stata una di quelle volte.

Siamo riemersi in Piazza De Ferrari, affiancati e zitti. Io avrei voluto abbracciare papà e dirgli “Sono contenta che siamo ancora vivi”. Poi bloccata da chissà che stupida inibizione non l’ho fatto.

Però ha parlato lui “E per oggi direi che possiamo essere piuttosto soddisfatti: siamo ancora vivi”.

Ha sempre avuto il talento di saper sdrammatizzare padre.

Siamo passati da Bata e mi ha comprato un paio di scarpe da ginnastica e delle calze perché “insomma, coi piedi bagnati ti prendi un accidente”. E, dico io, ma era sottointeso, “festeggiamo di avere ancora come problema il dover contare i soldi e non un salto nel vuoto senza paracadute.”

Poi siamo andati a mangiare alle Prie Rosse, ristorantino adorabile in via Ravecca.

Ho ordinato,, evento già di per sé notevolissimo, una tagliata al pepe verde…penso sia stata una delle cose più buone che ho mai gustato nella mia vita.

Genova

Boccadasse

Vivevo ancora a Torino la prima volta che mi sono innamorata di Genova.

Vivevo a Torino e fino a prova contraria allora era Torino la città che mi ero scelta, emigrando dalle mie castellazzesi terre natie.

Da Torino stavo anche per scappare, anzi, la fuga era ormai predisposta.

Me lo ricordo come fosse oggi: dopo lunga e sofferta malattia l’esfiltrazione era prevista per il 28 Aprile.

Bene, il 28 Aprile, tornata all’ovile, libera, senza obblighi lavorativi né di altra natura, giacchè anche da quelli ero scappata, dovevo vedermi con un amico. Si era d’accordo che avrei avuto diritto di scelta sul programma della giornata, come festeggiamento per il mio ritorno (non che, col senno di poi, ci fosse molto da festeggiare: fu una fuga disonorevole, per quanto necessaria alla sopravvivenza).

In quell’occasione ho chiesto una gita a Genova, passeggiata Anita Garibaldi, Nervi. E poi centro, vicoli e cena al Porto Antico.

Quel giorno mi sono resa conto di amare Genova.

Ma non da turista.

Cioè, per carità, a livello turistico vale la pena di farsi un giro nel capoluogo ligure, ma non è stata la basilica di San Lorenzo a stregarmi, e nemmeno i Palazzi dei Rolli.

Genova ha un non-so-che.

Che non so che cosa sia davvero, nemmeno adesso.

Ho spesso tentato di definirlo, tanto per avere qualcosa da rispondere a chi mi chiedeva come mai avessi una tale cotta per detta città, ma non ci sono mai riuscita.

Genova è viva, ha un’anima. Genova è viva e non è nemmeno tanto una brava ragazza.

Le canzoni di De Andrè, che mi hanno accompagnata dai dodici anni in poi e mai abbandonata, non le avevo capite davvero prima di stare qui.

Lui era un poeta, l’ho sempre pensato, ma mai come ora mi sono convinta che avesse il dono assurdo di riuscire a mettere in parole sensazioni che parole non sono, il tutto senza nemmeno abusare di subordinate di dodicesimo grado.

Io per il mare ho sempre avuto un debole. Sono nata sotto il segno del Cancro, e quindi è il mio elemento. Costellazioni a parte, per me l’odore salmastro che si sente sui litorali è il profumo migliore del mondo. I colori che si creano tra terra acqua e cielo per i miei occhi sono i più incredibili e belli.

Non sono mai stata una persona particolarmente romantica o contemplativa, ammetto che al mio animo questo tocco di poesia manca. Proprio per questo mi stupisce tanto rimanere incantata in questo modo.

Che poi, a volerla dire tutta, non si tratta di un qualche dirompente fenomeno atipico che stordisce con la sua potenza. Lo Sturm Und Drang non c’entra niente.

Io mi sciolgo in brodo di giuggiole già per il Mar Ligure, né mosso né calmo, che si vede da Corso Italia in una giornata di né sole né pioggia.

Mi piace. E basta. Lo respiro, mi inonda, mi nutre.

Richiama alla mia memoria ricordi accavallati e confusi come fili di un arazzo intrecciato, colori vividi ma contormi sfocati. Vacanze passate, giornate vissute, frasi dette, spiagge, scogli, borghi, amici… gente persa per strada ma ricordi indelebili.

E poi il centro storico…

Genova non ha mica ben chiaro di essere al mare: a tratti si atteggia come se fosse un borgo montano. Esco a fare una passeggiata in centro e devo portare i bastoncini da nordic walking (ovviamente scherzo: sono atletica io!).

Nei vicoli, dove il buon Dio non dà i suoi raggi, troppo impegnato ad illuminare altri paraggi, onestamente non conviene circolare passata una certa ora, e in reatà la fauna è caratteristica già all’ora di pranzo.

Al sestriere del Molo c’è sempre una nutrita schiera di ubriaconi e disgraziati. Hanno preso residenza lì credo. E assurdamente sono parte del contesto urbano, sono appropriati. Una volta o l’altra mi siederò sul gradino con loro, mi porterò una latta da 66 di Peroni, tanto per guadagnarmi stima e fiducia, carta e penna, e li intervisterò. “Ma tu…- sarei curiosa di chiedere-cosa ti è successo? Perché ti sei ridotto così?”

Magari hanno storie da raccontare… Anzi, di certo ne hanno. Probabilmente non storie di marinai e pirati come mi piacerebbe immaginare, ma insomma, mai dire mai.

E l’odore dei vicoli…

“Se sei in dubbio, Peregrino Tuc, segui il tuo naso!” Lo diceva Gandalf il Grigio (prima di diventare Bianco, eh!), e lui è uno degno di fiducia. Ecco, io il mio naso lo tengo in gran conto: nelle emozioni che provo gli odori hanno grande importanza, sono inneschi per pensieri, ricordi e detto affresco incasinato di cui parlavo prima. Quando Proust usa il profumo di una madeleine per sperimentare una nuova tecnica narrativa mica sceglieva un senso a caso!

Comunque, nei vicoli c’è odore di pasta all’arrabbiata. Di quella agliosa e prezzemolata. Mi ha sempre stupita questa cosa: io mi sarei aspettata basilico e pesto. E invece no: pasta all’arrabbiata. E pesce fritto, ovviamente. Ma il pesce fritto abita più verso il Porto Antico: venendo da Caricamento verso il centro c’è sull’angolo una friggitoria minuscola ma inflazionatissima che dota gli avventori di coni di carta gialla pieni di acciughe fritte, panissa, frisceu e delizie varie. Ecco, questa friggitoria, che io continuo a pensare sia quella dove sua nonna portava mia mamma quando era bambina, e anche se non posso esserne certa aggiunge un tocco simbolico alla cosa che mi piace un mondo, spande tutto attorno i suoi aromi, fiera vintage e odorosa.

Io sono piuttosto schifiltosa, di norma, e l’odore di cucinato mi urta…ma non questo. Questo nei pressi di Sottoripa ci sta talmente bene che se non ci fosse ne sentirei la mancanza.

L’altro ieri poi, che passeggiavo verso Boccadasse, e onestamente non mi ci metto nemmeno a cercare di descrivere che spettacolo proponga quel posto, perché siccome non sono De Andrè non trovo le parole (ma posso suggerire una canzone: per me Boccadasse è “Le acciughe fanno il pallone”), il cosmo ha voluto farmi un regalo: i colori erano quelli del post temporale, l’ora del giorno era il crepuscolo inoltrato verso la sera, l’odore era quello del mare, ma a tratti picchi di ristorante di pescatori reclamavano i loro istanti di gloria.

Totò parlava di attimini di dimenticanza.

Per me quello è stato un attimino di ricordanza: tutto il mio arazzo confuso, tutta la mia vita passata, nel suo ricordo indistinto mi ha fatto una carezza, e l’amarezza che era stata aveva ormai lasciato spazio alla dolcezza della memoria.

Torino

I ricordi sono infidi: arrivano a sorpresa e si portano dietro un groviglio indistinto di sensazioni, eco di quel che fu, ormai addolcito o inasprito dal tempo, come un profumo proustiano che va a toccare qualcosa tra mente e cuore ed esplode mille colori turbinanti.

Stamani ho dato un’occhiata al telefono, una consueta scorsa alle notifiche suggerite da facebook, ed eccola comparire, la banale foto rea delle mie emozioni: io e un amico a Torino con un San Simone in mano.

Me lo ricordo quando scattammo quella foto: era un baretto carino dove, mettendosi in posa vicino al muro e pubblicando un selfie con l’hashtag suggerito, si veniva omaggiati di un bicchierino di pregevole amaro.

Ecco, la foto noi l’avevamo fatta giusto per concludere degnamente la serata, non perché volessimo imprimere il momento nella memoria.

Però rivedendola io ho rivissuto in un secondo sette mesi di vita, con gli istanti accavallati l’uno all’altro in un caleidoscopio di confusa lucidità.

Incredibile come anche un periodo che, vivendolo, è stato percepito come faticoso e terrificante ora generi in me una certa malinconia.

Generalmente rifuggo questo tipo di sensazione, interpretandola come uno scherzo della mia mente capricciosa e incontentabile, ma questa volta, per una volta, ho deciso di tributare ai miei sette mesi torinesi un ricordo dolce.

Sono arrivata nella città sabauda assieme al mio primo lavoro, preso, come sempre io faccio le cose, di corsa, senza valutare cosa avrebbe comportato.

Dopo essermi rifiutata per anni di far valere la mia laurea, eccola lì la necessità di lavorare e di affrancarmi da casa, ed eccomi lì a propormi per un posto da informatica.

Non mi importava nulla del lavoro che sarei andata a fare: l’unica cosa che volevo era andare a vivere a Torino, via di casa.

E così è stato.

Torino la nobile, Torino la città dove nemmeno io che ho bisogno il GPS per andare in bagno riesco a perdermi.

Torino dove l’eco dell’antico splendore sabaudo ancora ammanta strade e portici.

Torino dove piazze enormi ed eleganti ospitano statue di condottieri vittoriosi che si stagliano contro il cielo plumbeo di un crepuscolo di inizio ottobre.

Torino dove le strette vie delle contrade dietro a Piazza Castello rompono l’altrimenti perfetta perpendicolarità, per portare l’avventore in un piccolo mondo fuori dal tempo, tra palazzi che profumano di  e Liberty.

Torino, dove i portici di via Po accompagnano in un salotto ottocentesco, illuminato a festa, e negli alloggi ai piani alti si può immaginare il ballo diabolico del Maestro e Margherita.

Sono arrivata una domenica sera, e, fuori dalla porta della “mia” abitazione in via dei Mille (“mia” è necessariamente tra virgolette, in quanto di fatto stavo nel bilocale di un’amica di famiglia, una sorta di ospite pagante di una sorta di residence non particolarmente personalizzabile), ho avuto la forte impressione che il mondo avesse smesso di girare e fosse caduto in una condizione di assenza di gravità per poi rimettersi in moto, lasciandomi così, percossa e attonita a domandarmi “E adesso?”.

A Torino ero sola, mi sentivo sola. Ma non ero sola davvero. Povera sciocca a pensarlo, questo col senno di poi lo devo dire.

Avevo l’amico del San Simone a fungere da fratello, confidente e rete di sicurezza. Con lui ho calpestato mille sampietrini, girovagato per pub di cui ciclicamente ci innamoravamo per poi abbandonarli in favore di una nuova fiamma foriera di birre migliori, scalato il monte dei Cappuccini solo per immortalare la città dall’alto una moltitudine di volte…Abbiamo girovagato per librerie aperte di sera, inventato storie e sogni, fatto promesse e stabilito strategie di guerra. E poi è andata come è andata, e forse non poteva andare diversamente.

Di Torino ricordo i colori: vividissimi, quasi una fotografia in HD. Era già primavera, poco dopo questo periodo dell’anno, quando partivo a piedi per raggiungere l’ufficio in tempo per il turno delle 11.

Era già il mio secondo lavoro, essendo io scappata dal primo dopo poco più di due mesi, e nemmeno quello mi piaceva. Però almeno era in città, contrariamente al primo a Tetti Francesi, e gli uffici della grande azienda in cui militavo offrivano tutti i confort, dal caffè gratuito alle macchinette a un meraviglioso terrazzo sul quale spendere le pause.

Dicevo, partivo a piedi verso le 9 per arrivare alle 11 a badare ai miei server, e mi dilettavo di calpestare le mie strade preferite, le più belle e linde della città.

Era in quelle maratone mattutine che, uscendo dai portici per immettermi in Piazza San Carlo, venivo quasi schiaffeggiata dal sole che illuminava senza reticenza gli edifici bianchi. Si aveva l’impressione di essere caduti in una sorta di realtà aumentata troppo nitida per i nostri sensi mortali.

Da Torino sono scappata, disperata, sull’orlo del crollo psico fisico, dopo circa sette mesi.

E’ stata la sconfitta peggiore della mia vita fino a quel momento, ma non me ne pento: era necessario. All’epoca era l’unica cosa che sono riuscita a fare. Non significa fosse la “cosa giusta”: semplicemente, non potevo fare diversamente.

La città che tanto avevo desiderato era diventata per me dolorosa prigione, ogni istante mi diventava eccessivamente faticoso e doloroso…eppure, c’è della dolcezza nel mio ricordare quel periodo.

Forse sarà la magia del tempo, che smussa gli spigoli e filtra le memorie.

O forse semplicemente, c’è del bello in tutto, in ogni emozione vissuta, anche se non sempre ce ne rendiamo conto in modo sincrono.

A tratti mi manca Torino, e mi manco io a Torino.

A tratti mi manca anche Milano.

Ho nostalgia di ogni istante della mia vita passata, anche di quelli in cui lì per lì mi sembrava solo di voler scappare più veloce della luce.

Ho passato anni a negare questa nostalgia, autoaccusandomi in rapida sequenza di non fare altro che peggiorare la mia condizione, non riconoscendo il valore di quello che ho quando ce l’ho, e di essere una canaglietta viziata e mai contenta.

Oggi non più.

Oggi la abbraccio, accogliendo io sapore dolce-amaro che porta con sé.

 

 

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E’ uno di quei locali in cui si arriva un po’ per caso e un po’ per destino.
Sembra quasi che il bistrot stesso sottoponga i suoi avventori ad una sorta di prova d’ingresso, come nelle più gettonate università.
Non è uno di quei posti in cui si arriva per sentito dire, e nemmeno uno di quelli dove si entra perché l’insegna o il dehor ha catturato l’attenzione.
Più che altro ci si ritrova dentro senza nemmeno essersene del tutto accorti e allora, solo allora, ci si guarda in giro e ci si rende conto di essere in effetti entrati in un microcosmo colorato di velluti rosso bruciato e legno color senape, vinili neri un po’ scoloriti e porte verdi dalle maniglie a pomolo dorate.
Non c’è tanta luce, ma le lanterne disseminate qua e là valgono a dare a tutto una sfumatura così adorabilmente fumosa da far pensare che i pochi e offuscati punti d’illuminazione siano stati disposti ad arte come i riflettori verrebbero posizionati su un set fotografico.
Ad ogni modo, si debba all’arte o al caso la disposizione strategica di tavoli e sedie, ora nascosti ora centrali, delle luci e dell’arredamento, la clientela stessa diventa, forse grazie alla selezione in entrata, parte integrante del piccolo affresco che il baretto offre.

La coppia a centro sala

Lui avrà superato i quarantacinque da non troppo, ma il tempo è forse stato un po’ troppo impietoso. Indossa una giacca da lavoro e un cardigan blu, in tinta con il pantalone semi elegante e un po’ meno in tinta con le stringate di pelle lucida. Quelle scarpe danno l’impressione di essere scomodissime, triste contrappasso per un personaggio che forse a causa di impegni di lavoro non fa più di cento metri al giorno.
Ha degli occhiali rettangolari dalla montatura sottile sul naso, obbiettivo di messa a fuoco necessaria ai suoi occhi verdiun po’ appannati per dare nitidezza a formule che spieghino il funzionamento del mondo.
E’ uno scienziato, un ingegnere meccanico. Passa la giornata a cercare inutilmente di spiegare a un branco di clienti che conoscono solo l’utile monetario che no, anche se loro vogliono un’asse di rototraslazione che si occupi anche dell’aggiornamento dati non si può fare. Certo, ha capito che risparmierebbero ben tre preziosi minuti e che il tempo è denaro ma no, se gli assi di rototraslazione non hanno ancora imparato a farti pure il caffè lui non può farci nulla. Sorride, si ripete come un mantra che il cliente ha sempre ragione e che tutto sommato la busta paga a fine mese lui l’ha bisogno, non foss’altro per potersi concedere una cena fuori con la sua bella senza doversi fare i conti in tasca durante la scelta del vino, ma certe volte non può fare a meno di pensare che nel suo immaginario di bambino il Deus Ex Machina che le machinae le assembla con competenza e arguzia non ha di questi problemi, problemi a cui troppo spesso si riduce la sua intera giornata.
La guarda, la sua bella, e pensa che per poterla coccolare un po’ ogni tanto alla fin fine vale la pena di star dietro alle folli richieste di uomini d’affari che non hanno mai calcolato un integrale in tutta la loro vita anche se pretendono di insegnargli il suo mestiere.

Lei è bionda, biondissima. I suoi capelli color platino incorniciano un viso ovale piuttosto paffuto scendendo quasi fino alle spalle leggermente scalati, lisci come la seta. Sono capelli sottili, che ad un osservatore poco attento potrebbero sembrare sporchi. In realtà, non più tardi di tre ore prima li ha lavati e acconciati, cercando il ogni modo di gonfiarli, evitando quell’odioso effetto scopino che di certo non sfina i suo volto, ma non c’è verso. In trent’anni forse dovrebbe essersene fatta una ragione, ma ancora oggi, tre giorni dopo i suo trentunesimo compleanno combatte strenuamente una battaglia senza via d’uscita.
Il colore invece le piace. Dall’adolescenza in poi si sente chiedere regolarmente quale nuance di tinta chiede al parrucchiere, e ogni volta non può fare a meno di nascondere una punta di compiacimento nel rispondere sinceramente che non chiede alcuna nuance: sonno naturali.
Le piacciono i vestiti ricercati e le scarpe col tacco, anche se non ne avrebbe bisogno essendo già alta.
Quella sera ha delle calze coprenti marroni ricamate con un vestito in maglina che segue i contorni del suo corpo formoso, indossa un giubbotto di pelle troppo pesante per stare al chiuso e troppo leggero per stare all’aperto, ma quel verde smeraldo è proprio bello, e sta divinamente che la sua tavolozza nordica.
Lo guarda, il suo professore. Non è mai stata sua allieva, perché l’anno in cui lui ha perso la cattedra di meccanica lei cominciava la prima, però sa che per dieci anni ha insegnato nella suola dove ha frequentato i primi due anni. Quando si sono conosciuti, ad una molto poetica cassa di un molto poetico supermercato, lei lo ha riconosciuto, ma lui forse ancora adesso non associa al suo viso quello di quella ragazzetta cicciotta che in prima liceo gli è andata addosso sulle scale facendogli cadere tutti i libri.

Hanno ordinato una pasta al pesce con un calice di vino rosso. Abbinata ardita e non classica, certo, ma quello è il vino che è stato loro consigliato dalla ragazza he ha preso l’ordine e loro non si sono sentiti di contestare.
Lei sa che quando vanno a cena fuori lui insiste per pagare… avrebbe avuto qualche remora ad ordinare il piatto più costoso dell’intero menù in altre circostanze, ma sa che a lui piace vedere che lei ordina cose sfiziose senza farsi problemi. E dire che quella sera avrebbe voluto solo un’insalatina scondita: la tensione dei bottoni dei suoi jeans dell’autunno passato la sta avvisando che sarebbe i caso di correre ai ripari prima che sia troppo tardi.
Lui la osserva, un po’ di sottecchi, mentre finge di leggere per la ventesima volta un menù che ormai ha quasi imparato a memoria. E’ proprio bella, con il suo rossetto bordeaux messo ad arte, che lui non ha mai capito come riesca a non sbavare nemmeno mangiando. La guarda non si spiega cosa un bella ragazza come lei ci trovi in uno come lui…uno che sulla sedia del bistrot trova che il tavolo sia di una taglia sbagliata e assume una inevitabile posa ingobbita per evitare l’ancor peggiore per performance di sbrodolare il sugo sulla cravatta.
Sono ormai anni che si frequentano, e dopo essersi più volte tormentato con il tarlo del dubbi che lei non provi nulla per lui e si accompagni a lui per chissà quale sbagliatissimo motivo ha deciso di rompere gli indugi e di ammettere con sé stesso di esserne perdutamente innamorato. Ha deciso, in modo così poco scientifico ed empirico, che se è tutto finto non sarà certo lui a cercare la prova della verità, non questa volta.
Arriva il vino, e a stretto giro la portata.
Lui la guarda, le augura il buon appetito e propone un brindisi.
Lei guarda quel gigantesco piatto di linguine ai frutti di mari pronte a depositarsi per anni sui suoi fianchi e annusa il loro profumo invitante, solleva il suo calice e gli sorride.
Non si chiede nemmeno più cosa lui pensi in quegli attimi di silenzio: lo sa anche se nessuno glielo ha mai detto.
Brindano e si accingono a mangiare.
Lui lotta con una vongola verace, vuole aprirla con le posate, ma è evidente che la lotta è impari. Durante la tenzone parte uno schizzo di sugo di pomodoro, galeotto compie una parabola perfetta e si deposita sul polsino della camicia azzurra chiara.
Lei trattiene un risolino: sperabilmente, il professore non si accorgerà di nulla e non si rovinerà la serata.
“Permetti?”
Gli pesca la vongola dal piatto, con abile mossa la apre con un colpo di unghia color melanzana e poi gliela restituisce aperta leccandosi l’indice. Mamma mia che buono quel sugo: forse potrebbe valutare attentamente l’idea di comprare un paio di jeans una taglia più grandi e chiedere al cuoco l’intera teglia da finire.
Lui si riscuote a fatica, infilza la vongola indifesa insieme ad una linguina e non può fare a meno di pensare che se quella è solo una sospensione della realtà regalatagli da qualche dio degli atei…bhe, a caval donato non si guarda in bocca.

 

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Suona il gong, scocca la mezzanotte, e come le maschere del Carnaval che ricoverano nel salone delle feste ho un anno in più.

Anno che, ben inteso, ho compiuto giorno dopo giorno, non certo di colpo in un secondo, quello che dalle 23.59.59 porta alle 00.00.00.

Mi piace la locuzione “compiere un anno”: implica che non si tratti di un istante di distrazione in cui ti ritrovi di colpo un po’ più vecchio ma di una lunga serie di attimi che, per convenzione, ti portano al riconoscimento del fatto che non solo hai attraversato 365 giorni e qualche ora, volendo pedantemente tener conto del significato reale dell’anno bisestile, ma anche che a quei 365 giorni e qualcosa sei sopravvissuto.

Mi ricordo che, con una certa preveggenza, alla tenera età di tre anni e mezzo, specchiandomi nello specchio nel corridoi della casa vecchia candidamente domandavo a mio padre “Cosa mi regali perché ho compiuto il mezzo?” elevando a successo degno di un regalo non solo il compimento di un anno ma anche della sua metà. La mia era, bei tempi, innocenza infantile, ma ora capisco che anche per sei merdosi mesi può valer la pena di congratularsi per una riuscita sopravvivenza.

Sì, perché se io dovessi trovarmi a fare un bilancio dell’ultimo anno la prima cosa che direi è “sono sopravvissuta”. Per l’esattezza, e mi si perdoni il francesismo, mi metterei in piedi su un bella boccia sparti traffico, come tante volte ho fatto per fare la scema e poi, a gran voce, tirando fuori le mie doti liriche, proclamerei che “vaffanculo, in barba a tutto e tutti io sono ancora qui!”.

Non che sia un merito particolare, ne sono consapevole. Tutti i ventiseienni di questo mondo ce l’hanno fatta. Eppure, così è, e non è così scontato.

Non è così scontato per me che, nel mio piccolo, ho dovuto guardare dentro al vaso di Pandora e provare orrore, per le mie stesse miserie e per le miserie di altri.

Mi sono dovuta rendere conto che quando Tolkien scriveva “Non tutto è oro quel che luccica” porco cane se aveva ragione.

Mi sono dovuta rendere conto che ho fatto tante di quelle cazzate che andrei volentieri a nascondermi in un ripostiglio e butterei la chiave, se solo non fosse che senza la mia presenza atta a supercazzolare nel tentativo di sbrogliare i miei stessi medesimi casini la mia immagine residua se la passerebbe molto, ma molto assai peggio.

Mi sono dovuta rendere conto che alla fine queste tanto discusse, tormentate e analizzate cazzate che ho fatto, se non proprio a fin di bene le ho fatte in buona fede, ma non potrò mai sostenere questa tesi con nessuno, e dovrò sempre scontare la condanna di bere dal mio amaro calice di vederle come spade di Damocle pronte e trafiggermi.

Mi sono resa conto che alla fin fine ognuno ha le sue, e chi sono io per giudicare.

Mi trovo attualmente a pensare che quando si dice “Il mondo è bello perché è AVARIATO” in fondo in fondo un po’ è vero: se così non fosse non esisterei io, e nemmeno i miei migliori amici. Siamo un po’ avariati, ma anche il gorgonzola è ammuffito, eppure è stra buono.

Ci sono giornate grige in cui vedo solo le miserie, principalmente quelle in cui sono carnefice e non vittima, e vorrei solo tagliarmi le vene e smettere di esistere e di pensare. Poi penso che tutto sommato mi piace prendere il caffè con mia mamma, farmi una birra con i miei amici, bermi il mio San Simone serale corredato di sigaretta di coda, sentire la pelle nuda che si scalda sotto il sole e respirare l’odore della pece sotto la luce, e allora lascio perdere, in attesa che mi passi il momento di consapevolezza depressiva mistica.

Mi piaceva la passeggiata dalla stazione di Milano Lambrate al M.A.S.

Non la farò mai più, non con questa testa…ma se ci ripenso mi ricordo che i primi tempi che andavo a lezione da sola avevo una paura tremenda, odiavo quei 2,9 km ma non osavo prendere il bus per paura di non scendere alla fermata giusta e quell’ora e mezza prima della classe mi sembrava interminabile. Poi è diventata un rito, e l’ultimo giorno che sono tornata persino la stazione mi sembrava l’Eden a cui mi accingevo a dar l’addio.

C’è del bello in tutto. Basta saperlo vedere. Io attualmente non lo vedo. Ma mi piace ripetermi che lo vedrò. Magari non domani, ma prima o poi lo vedrò, perché so che c’è. Chiamatemi sognatrice, scema o illusa, ma io ci voglio credere che prima o poi riuscirò a cogliere non un barlume fugace di questo bello ma una vera e appagante immagine.

E’ allora ci ripenso, e decido che di finirla non ne vale la pena, perché anche ci fosse solo la speranza e qualche attimo di graziosa routine sarebbe pur sempre meglio che niente.

Ed è faticoso, perché desidero e sogno, e sono consapevole di quel che non ho…ne sono  consapevole in modo doloroso e capriccioso. Eppure, come dicevo qualche parola fa, “Sono ancora qui”.

Tanti, io credo, mi vedono come un esserino in difficoltà, debole e bisognoso di cure. Forse è così, almeno sotto certi aspetti, ma sotto altri no, perché la mia consapevolezza dell’anno compiuto è che no, non mi arrenderò alla tempesta.

Un mio caro amico recentemente mise come immagine di WhatsApp questa frase “Un giorno il diavolo mi sussurrò all’orecchio -Tu non sei forte abbastanza per affrontare la tempesta.- Oggi io ho sussurrato al diavolo-Io sono la tempesta-“.

Ecco, io non potrei mai sussurrare al Diavolo che sono la tempesta, perché non lo sono, e mentire al Diavolo non è mai un buon affare: è uno che se ne intende lui. Però quello che posso dirgli è che farò il possibile per sopportarla, la tempesta, e anche se dovrò vomitare l’anima per i cavalloni inferociti quando sarà finita, perché ogni tempesta prima o poi deve finire, io mi sciacquerò la faccia per riprendermi un po’ e, ancora pallida e sconvolta, cercherò di fare una bella risatina ad effetto e gli dirò che tutto sommato l’ultima sbronza che ho preso mi ha fatta stare peggio.