Genova-nel-cuore

Un anno fa non ero Genovese.

Non ero Genovese, non lavoravo, e non avevo una direzione. Solo tanta confusione, tanto tempo libero, tanta tristezza e pochi soldi.

Quel 14 Agosto mio padre, che un anno fa non era in pensione, aveva un appuntamento di lavoro presso un importante cliente genovese, il cui ufficio si trova in via Ponte Reale.

Io avevo deciso di accompagnarlo, perché, pur non essendo genovese, già amavo questa città e coglievo al balzo ogni possibilità di spendere tra i suoi vicoli qualche ora, fantasticando su come sarebbe stato bello poterli percorrere sempre, senza prendere un treno o una macchina per raggiungerli.

Pioveva in un modo assurdo, ma assurdo davvero. Mi ricordo che nell’aspettare mio papà per andare a pranzo mi sono rintanata in un negozio di abbigliamento in piazza Banchi, bagnata fradicia e infreddolita. Avevo le scarpe completamente imbevute d’acqua e le calze zuppe nonostante l’ombrello.

A terra praticamente c’era non più una strada ma un torrente in piena.

Allora ricordo di aver constatato che ad Alessandria, anche quando piove tanto, non piove così. A Genova sembra che piova da sotto, di lato, di traverso…ovunque. L’ombrello è più una consolazione mentale che una vera protezione dal bagnato. Quest’anno, che sono genovese, lo confermo: quando piove qui lo fa con arroganza.

Sempre più fradicia mi sono poi spostata a Sottoripa, dove avrei dovuto incontrare mio papà, sperando arrivasse presto.

Idea non originale, dato che il porticato era strabordante di persone fradicie come me.

Solo qualche coraggioso osava l’attraversamento della strada, per passare da una sezione dei portici all’altra, e solo dopo debita riflessione sul ciglio della zona coperta.

Proprio uno di questi, un uomo di età indefinibile dai capelli bianchi e un indubbio odore di vino, mentre mi passava accanto, si rivolgeva ad un amico, seduto a fare aperitivo al tavolino del bar nei pressi del quale stavo stazionando: “Il Ponte! Il Ponte è crollato, uh belin!”

E poi un vociare di inconsapevoli, che evidentemente come me avevano sentito le sue parole: “Il Ponte? Come il Ponte?? Uh Diu….” E gente che tirava fuori il cellulare.

E io, ignorante oltre che inconsapevole, che non sapevo nemmeno cosa cercare, che nome mettere.

Ho colto nelle chiacchiere di altri il nome “Morandi”: a ricerca effettuata, ancora niente di scritto. Ho cominciato a pensare che si trattatasse dei deliri di un ubriacone.

È stato in quel momento che mio padre mi ha raggiunta, zuppo poco meno di me.

Abbiamo cominciato a strutturare un piano per raggiungere un ristorante di suo gusto non più fradici di quanto già fossimo, e il piano ha incluso lo scendere a prendere la metro.

Nel mentre, proprio mentre aspettavamo al binario, mi è ritornata in mente la butad del tizio odoroso di vino: “Papi, ma sai che ho sentito uno dire che il ponte è crollato?”

“Quale ponte?”

“Boh, mi sembra il Morandi”

“Ma va!! Si saprebbe.”

Ostenta sicurezza, ma intanto estrae il cellulare e fa una ricerca: ebbene sì, il ponte è crollato per davvero.

Nel frattempo la metro era arrivata e noi siamo saliti. Mio padre, un po’ più serio del suo solito, si è appeso alla maniglia e ha continuato a leggere la notizia.

“In momenti come questi ti rendi conto di quanto sia sottile il filo che separa una giornata come un’altra da una tragedia”.

Discorsi del genere sono rari fatti da lui, per cui mi sono messa sull’attenti e l’ho guardato interrogativa: ripeto, oltre che inconsapevole ero anche ignorante.

Il genitore ha spiegato: “Sul Morandi noi ci siamo passati stamattina. Circa un quarto d’ora prima che andasse giù”

Lì per lì non ho razionalizzato.

Poi, dopo poco, ho razionalizzato eccome. Noi, che di Genova non siamo, ma che quel ponte lo abbiamo percorso percorriamo quando vogliamo raggiungere i miei amati vicoli e il primo mare in linea d’aria, proprio il 14, quando casualmente stavamo andando a Genova, abbiamo attraversato il viadotto poco prima che si aprisse verso il baratro. Pochissimo prima. Se avessimo fatto poca coda in più all’autogrill a fare il salto della morte saremmo stati noi.

Non ho avuto la forza di pensare a cosa avrebbe provato mia mamma, nell’apprendere da un tg la notizia che in un giorno come un altro suo marito e sua figlia erano stati vittime casuali del destino, mentre invece ha solo ricevuto un misterioso messaggio “Stai tranquilla, stiamo bene”, apparentemente senza senso, non essendo la notizia ancora arrivata.

E poi ho pensato a chi quei dieci minuti di coda in più li ha fatti, a chi è partito poco dopo di noi, a chi passava sotto al Morandi in quel momento…A loro e a quelle madri, sorelle, mariti, figli, fidanzati, che dopo aver appreso della notizia il messaggio “Stiamo bene” lo hanno aspettato con il cuore in gola e non lo hanno mai ricevuto.

Ci ho pensato e sono impallidita.

Per fortuna quasi mai mi è capitato di dover pensare alla morte, mia o di altri, perché davvero mi passa vicino…ma quel 14 Agosto dell’anno scorso è stata una di quelle volte.

Siamo riemersi in Piazza De Ferrari, affiancati e zitti. Io avrei voluto abbracciare papà e dirgli “Sono contenta che siamo ancora vivi”. Poi bloccata da chissà che stupida inibizione non l’ho fatto.

Però ha parlato lui “E per oggi direi che possiamo essere piuttosto soddisfatti: siamo ancora vivi”.

Ha sempre avuto il talento di saper sdrammatizzare padre.

Siamo passati da Bata e mi ha comprato un paio di scarpe da ginnastica e delle calze perché “insomma, coi piedi bagnati ti prendi un accidente”. E, dico io, ma era sottointeso, “festeggiamo di avere ancora come problema il dover contare i soldi e non un salto nel vuoto senza paracadute.”

Poi siamo andati a mangiare alle Prie Rosse, ristorantino adorabile in via Ravecca.

Ho ordinato,, evento già di per sé notevolissimo, una tagliata al pepe verde…penso sia stata una delle cose più buone che ho mai gustato nella mia vita.