L’ultimo giorno di scuola.
Potrebbe a buon diritto entrare tra gli Arcani Maggiori dei tarocchi da tanti significati che guadagna agli occhi dello studente liceale.
L’ultimo giorno di scuola non è solo non avere più verifiche e interrogazioni: è il preludio ad un’estate adolescente di divertimenti e ricordi indelebili che rimarranno per sempre nel cuore, è l’incipit di tre mesi e più senza pensieri, nonché il contratto che scioglie lo studente da ogni obbligo e dovere fino a nuovo ordine.
Per me tutto ciò non è mai stato: lo dico più che altro perché ho visto un sacco di film in cui a questo fantomatico “ultimo giorno” vengono date tutte queste valenze quasi mistiche.
Personalmente quando smettevo di andare a scuola cominciavo a dover studiare pianoforte, quindi tutto questo brivido della libertà imminente non l’ho mai provato. Che poi, “cominciavo a dover studiare il pianoforte” non significa che necessariamente ubbidissi a questo imperativo categorico…sono sempre stata una brava allieva, ma non mi sono mai ammazzata di studio con la costanza dei veri studenti diligenti, e a meno di scadenze imminenti ho sempre tentato di tergiversare elegantemente.
Comunque, che mi recludessi o meno per suonare quando potevo smettere di dovermi recludere per studiare, la predisposizione mentale da “devo fare qualcosa che non ho tutta questa voglia di fare, ma come una spada di Damocle pende sul mio capo” c’è sempre stata. In piscina, in vacanza, al parco eccetera ci andavo come tutti, ma con il diffuso senso di colpa di non star studiando.
Ad ogni modo, l’ultimo giorno lo aspettavo con trepidazione anche io: anzi, direi addirittura che aspettavo con trepidazione l’ultima settimana intera, nell’attesa dell’apoteosi data da quell’ultimo trillo di campana che ci avrebbe salutati fino a settembre. Espletato questo rito di uscita gioiosa poi scappavo come una lippa, prima di beccare qualche gavettone vagante tra capo e collo. Non sono mai stata tanto in rapporti con i miei compagni di classe, anzi, diciamo che non sono mai stata in rapporti, né tanto né poco, quindi il rischio di essere proprio io il bersaglio della doccia era minimo, però mi è capitato più di una volta di essere centrata solo perché passavo tra il lanciatore scelto e la sua vittima.
Una volta, mi sembra che fosse al termine della terza media, il gavettone che mi ha lavata era ricolmo di coca cola. Io ero andata dal parrucchiere il giorno prima, quando ancora tentavo di farmi stirare i capelli e lottavo perché durassero lisci il più a lungo possibile, e indossavo una canottiera beige di mia mamma, la quale me l’aveva ceduta solo dopo ripetute raccomandazioni di non rovinargliela né sporcargliela né altro.
Tra la messa in piega irrimediabilmente rovinata e la maglietta in prognosi riservata, mi ricordo di aver fatto fatica a contrastare l’istinto omicida nei confronti di quel simpaticone che mi aveva lavata, anche perché all’epoca è verosimile che il gavettone zuccheroso e marroncino fosse proprio indirizzato a me: se al liceo i “non-troppo-simpatici” vengono dignitosamente ignorati alle medie sono oggetto di ogni genere di scherzo e fastidiamento.
Comunque, è bello aspettare con ansia qualcosa di bello, pieni di aspettative e speranze. Si tratti della mattina di Natale, del proprio compleanno, della partenza per il mare, del giorno in cui si rivedrà qualcuno che ci è mancato tanto o dell’ultimo giorno di scuola. E’ una sensazione che, se uno fa l’errore di razionalizzare, è fondamentalmente insensata: contare i secondi non farà passare prima il tempo che ci separa dal momento magico, e caricare un istante di tutta questa aspettativa alza immensamente il rischio di scottante delusione. Eppure, contemporaneamente, il momento più bello è proprio l’attesa, come ne “Il sabato del villaggio”…l’aspettare, magicamente, può rendere per un attimo probabili, se non addirittura vere, le nostre più strambe e inconfessate speranze. Nella quiete del nostro contare i secondi possiamo goderci quello che vorremmo un po’ come se fosse accaduto, la realtà dei fatti ancora nascosta da un velo offuscato che non ce ne fa distinguere i contorni.
E’ questa una sensazione che mi manca molto. Ho smesso di aspettare, non tanto perché abbia smesso di avere cose belle da attendere, quanto perché giorno dopo giorno ho perso questa condizione privilegiata di audace irrazionalità fanciullesca che porta a sognare ignorando il rischio di vedere il proprio sogno infranto. Stando dall’altra parte della barricata, posso dire che non sono così sicura che ripararsi un pochino da una piccola percentuale delle delusioni che il destino ci offre per sua natura valga lo scambio. Per rimanere su Leopardi, stessa opera: “Godi, fanciullo mio; stato soave,
Stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
Ch’anco tardi a venir non ti sia grave. “