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Se Genova fosse un uomo sarebbe un ragazzo dalla pelle olivastra, capelli neri arruffati e occhi profondi.

Servirebbe birre in un pub non troppo ordinato con tavolacci di legno scuro intrisi dell’odore di mille bevute e mille avventori e avrebbe tatuaggi a mano libera sulle braccia e sulle nocche.

Le sue mani sarebbero forti, avrebbero palmi larghi e dita squadrate e qualche cicatrice, memento di avventure vissute.

 

Se Genova fosse una donna sarebbe una fanciulla selvatica con lunghi capelli scoloriti dal sole e increspati dalla salsedine. Avrebbe il viso bruciacchiato dal sole e gli occhi chiari e brillanti.

Il suo corpo sarebbe sottile e scattante, ma solido e muscoloso.

In piedi sul ponte di una barca a vela sarebbe capace di tirare le cime ed accordare l’imbarcazione alla danza del vento, sfidando le intemperie e ridendo delle onde che le arrivano addosso.

 

Se Genova fosse un animale, sarebbe un gatto. Un gatto rosso che con il suo passo felpato e un fiero sprezzo felino si aggira per i vicoli come se fosse il re del mondo, strusciandosi agli angoli delle strade con fare sornione dove il profumo di pesce delle friggitorie è più accattivante.

 

Se Genova fosse una portata, di certo non sarebbe un’elegante pietanza agghindata in un piatto grosso quanto un disco volante come si conviene ai manicaretti della nouvelle cuisine, dove improbabili accostamenti dolce-sapido-acido-piccante titillano le papille gustative lasciandole al termine della degustazione così, percosse e attonite, un po’ confuse e non necessariamente soddisfatte.

Genova sarebbe acciughe fritte ripiene, una bella porzione per lo stomaco esigente di chi è stato all’aperto tutto il giorno, servita in una terrina di coccio o in un cono di carta gialla.

 

Se Genova fosse una bevanda, sarebbe una caraffa di vino bianco. Frizzantino e fresco, pronto a fregare il consumatore con la sua apparente innocenza per poi farlo andare a casa barcollante su stradine tortuose e in saliscendi, fatte apposta per testare l’equilibrio di chi le percorre.

 

Se Genova fosse un fenomeno atmosferico sarebbe una mareggiata improvvisa, di quelle vengono dal nulla.

Quando al tramonto il sole sembra tuffarsi nei flutti, e la luce cambia il suo colore, ecco che arriverebbero dal mare nuvole plumbee, e l’atmosfera assumerebbe quella sfumatura calda e giallastra quasi innaturale, che nessuna fotografia è in grado di catturare.

Comincerebbe a soffiare un vento che stupisce con la sua forza, un vento gonfio di odori e pieno di sale che si attacca addosso, e le onde comincerebbero a reclamare il loro spazio mangiando la spiaggia, ruggenti come una carica di cavalleria.

Gli scogli le infrangerebbero in mille schizzi bianchi, ma il mare allegro, il mare rabbioso continuerebbe la sua danza potente, al suono ciclico della vita degli abissi.

 

Torino

I ricordi sono infidi: arrivano a sorpresa e si portano dietro un groviglio indistinto di sensazioni, eco di quel che fu, ormai addolcito o inasprito dal tempo, come un profumo proustiano che va a toccare qualcosa tra mente e cuore ed esplode mille colori turbinanti.

Stamani ho dato un’occhiata al telefono, una consueta scorsa alle notifiche suggerite da facebook, ed eccola comparire, la banale foto rea delle mie emozioni: io e un amico a Torino con un San Simone in mano.

Me lo ricordo quando scattammo quella foto: era un baretto carino dove, mettendosi in posa vicino al muro e pubblicando un selfie con l’hashtag suggerito, si veniva omaggiati di un bicchierino di pregevole amaro.

Ecco, la foto noi l’avevamo fatta giusto per concludere degnamente la serata, non perché volessimo imprimere il momento nella memoria.

Però rivedendola io ho rivissuto in un secondo sette mesi di vita, con gli istanti accavallati l’uno all’altro in un caleidoscopio di confusa lucidità.

Incredibile come anche un periodo che, vivendolo, è stato percepito come faticoso e terrificante ora generi in me una certa malinconia.

Generalmente rifuggo questo tipo di sensazione, interpretandola come uno scherzo della mia mente capricciosa e incontentabile, ma questa volta, per una volta, ho deciso di tributare ai miei sette mesi torinesi un ricordo dolce.

Sono arrivata nella città sabauda assieme al mio primo lavoro, preso, come sempre io faccio le cose, di corsa, senza valutare cosa avrebbe comportato.

Dopo essermi rifiutata per anni di far valere la mia laurea, eccola lì la necessità di lavorare e di affrancarmi da casa, ed eccomi lì a propormi per un posto da informatica.

Non mi importava nulla del lavoro che sarei andata a fare: l’unica cosa che volevo era andare a vivere a Torino, via di casa.

E così è stato.

Torino la nobile, Torino la città dove nemmeno io che ho bisogno il GPS per andare in bagno riesco a perdermi.

Torino dove l’eco dell’antico splendore sabaudo ancora ammanta strade e portici.

Torino dove piazze enormi ed eleganti ospitano statue di condottieri vittoriosi che si stagliano contro il cielo plumbeo di un crepuscolo di inizio ottobre.

Torino dove le strette vie delle contrade dietro a Piazza Castello rompono l’altrimenti perfetta perpendicolarità, per portare l’avventore in un piccolo mondo fuori dal tempo, tra palazzi che profumano di  e Liberty.

Torino, dove i portici di via Po accompagnano in un salotto ottocentesco, illuminato a festa, e negli alloggi ai piani alti si può immaginare il ballo diabolico del Maestro e Margherita.

Sono arrivata una domenica sera, e, fuori dalla porta della “mia” abitazione in via dei Mille (“mia” è necessariamente tra virgolette, in quanto di fatto stavo nel bilocale di un’amica di famiglia, una sorta di ospite pagante di una sorta di residence non particolarmente personalizzabile), ho avuto la forte impressione che il mondo avesse smesso di girare e fosse caduto in una condizione di assenza di gravità per poi rimettersi in moto, lasciandomi così, percossa e attonita a domandarmi “E adesso?”.

A Torino ero sola, mi sentivo sola. Ma non ero sola davvero. Povera sciocca a pensarlo, questo col senno di poi lo devo dire.

Avevo l’amico del San Simone a fungere da fratello, confidente e rete di sicurezza. Con lui ho calpestato mille sampietrini, girovagato per pub di cui ciclicamente ci innamoravamo per poi abbandonarli in favore di una nuova fiamma foriera di birre migliori, scalato il monte dei Cappuccini solo per immortalare la città dall’alto una moltitudine di volte…Abbiamo girovagato per librerie aperte di sera, inventato storie e sogni, fatto promesse e stabilito strategie di guerra. E poi è andata come è andata, e forse non poteva andare diversamente.

Di Torino ricordo i colori: vividissimi, quasi una fotografia in HD. Era già primavera, poco dopo questo periodo dell’anno, quando partivo a piedi per raggiungere l’ufficio in tempo per il turno delle 11.

Era già il mio secondo lavoro, essendo io scappata dal primo dopo poco più di due mesi, e nemmeno quello mi piaceva. Però almeno era in città, contrariamente al primo a Tetti Francesi, e gli uffici della grande azienda in cui militavo offrivano tutti i confort, dal caffè gratuito alle macchinette a un meraviglioso terrazzo sul quale spendere le pause.

Dicevo, partivo a piedi verso le 9 per arrivare alle 11 a badare ai miei server, e mi dilettavo di calpestare le mie strade preferite, le più belle e linde della città.

Era in quelle maratone mattutine che, uscendo dai portici per immettermi in Piazza San Carlo, venivo quasi schiaffeggiata dal sole che illuminava senza reticenza gli edifici bianchi. Si aveva l’impressione di essere caduti in una sorta di realtà aumentata troppo nitida per i nostri sensi mortali.

Da Torino sono scappata, disperata, sull’orlo del crollo psico fisico, dopo circa sette mesi.

E’ stata la sconfitta peggiore della mia vita fino a quel momento, ma non me ne pento: era necessario. All’epoca era l’unica cosa che sono riuscita a fare. Non significa fosse la “cosa giusta”: semplicemente, non potevo fare diversamente.

La città che tanto avevo desiderato era diventata per me dolorosa prigione, ogni istante mi diventava eccessivamente faticoso e doloroso…eppure, c’è della dolcezza nel mio ricordare quel periodo.

Forse sarà la magia del tempo, che smussa gli spigoli e filtra le memorie.

O forse semplicemente, c’è del bello in tutto, in ogni emozione vissuta, anche se non sempre ce ne rendiamo conto in modo sincrono.

A tratti mi manca Torino, e mi manco io a Torino.

A tratti mi manca anche Milano.

Ho nostalgia di ogni istante della mia vita passata, anche di quelli in cui lì per lì mi sembrava solo di voler scappare più veloce della luce.

Ho passato anni a negare questa nostalgia, autoaccusandomi in rapida sequenza di non fare altro che peggiorare la mia condizione, non riconoscendo il valore di quello che ho quando ce l’ho, e di essere una canaglietta viziata e mai contenta.

Oggi non più.

Oggi la abbraccio, accogliendo io sapore dolce-amaro che porta con sé.