Vivevo ancora a Torino la prima volta che mi sono innamorata di Genova.
Vivevo a Torino e fino a prova contraria allora era Torino la città che mi ero scelta, emigrando dalle mie castellazzesi terre natie.
Da Torino stavo anche per scappare, anzi, la fuga era ormai predisposta.
Me lo ricordo come fosse oggi: dopo lunga e sofferta malattia l’esfiltrazione era prevista per il 28 Aprile.
Bene, il 28 Aprile, tornata all’ovile, libera, senza obblighi lavorativi né di altra natura, giacchè anche da quelli ero scappata, dovevo vedermi con un amico. Si era d’accordo che avrei avuto diritto di scelta sul programma della giornata, come festeggiamento per il mio ritorno (non che, col senno di poi, ci fosse molto da festeggiare: fu una fuga disonorevole, per quanto necessaria alla sopravvivenza).
In quell’occasione ho chiesto una gita a Genova, passeggiata Anita Garibaldi, Nervi. E poi centro, vicoli e cena al Porto Antico.
Quel giorno mi sono resa conto di amare Genova.
Ma non da turista.
Cioè, per carità, a livello turistico vale la pena di farsi un giro nel capoluogo ligure, ma non è stata la basilica di San Lorenzo a stregarmi, e nemmeno i Palazzi dei Rolli.
Genova ha un non-so-che.
Che non so che cosa sia davvero, nemmeno adesso.
Ho spesso tentato di definirlo, tanto per avere qualcosa da rispondere a chi mi chiedeva come mai avessi una tale cotta per detta città, ma non ci sono mai riuscita.
Genova è viva, ha un’anima. Genova è viva e non è nemmeno tanto una brava ragazza.
Le canzoni di De Andrè, che mi hanno accompagnata dai dodici anni in poi e mai abbandonata, non le avevo capite davvero prima di stare qui.
Lui era un poeta, l’ho sempre pensato, ma mai come ora mi sono convinta che avesse il dono assurdo di riuscire a mettere in parole sensazioni che parole non sono, il tutto senza nemmeno abusare di subordinate di dodicesimo grado.
Io per il mare ho sempre avuto un debole. Sono nata sotto il segno del Cancro, e quindi è il mio elemento. Costellazioni a parte, per me l’odore salmastro che si sente sui litorali è il profumo migliore del mondo. I colori che si creano tra terra acqua e cielo per i miei occhi sono i più incredibili e belli.
Non sono mai stata una persona particolarmente romantica o contemplativa, ammetto che al mio animo questo tocco di poesia manca. Proprio per questo mi stupisce tanto rimanere incantata in questo modo.
Che poi, a volerla dire tutta, non si tratta di un qualche dirompente fenomeno atipico che stordisce con la sua potenza. Lo Sturm Und Drang non c’entra niente.
Io mi sciolgo in brodo di giuggiole già per il Mar Ligure, né mosso né calmo, che si vede da Corso Italia in una giornata di né sole né pioggia.
Mi piace. E basta. Lo respiro, mi inonda, mi nutre.
Richiama alla mia memoria ricordi accavallati e confusi come fili di un arazzo intrecciato, colori vividi ma contormi sfocati. Vacanze passate, giornate vissute, frasi dette, spiagge, scogli, borghi, amici… gente persa per strada ma ricordi indelebili.
E poi il centro storico…
Genova non ha mica ben chiaro di essere al mare: a tratti si atteggia come se fosse un borgo montano. Esco a fare una passeggiata in centro e devo portare i bastoncini da nordic walking (ovviamente scherzo: sono atletica io!).
Nei vicoli, dove il buon Dio non dà i suoi raggi, troppo impegnato ad illuminare altri paraggi, onestamente non conviene circolare passata una certa ora, e in reatà la fauna è caratteristica già all’ora di pranzo.
Al sestriere del Molo c’è sempre una nutrita schiera di ubriaconi e disgraziati. Hanno preso residenza lì credo. E assurdamente sono parte del contesto urbano, sono appropriati. Una volta o l’altra mi siederò sul gradino con loro, mi porterò una latta da 66 di Peroni, tanto per guadagnarmi stima e fiducia, carta e penna, e li intervisterò. “Ma tu…- sarei curiosa di chiedere-cosa ti è successo? Perché ti sei ridotto così?”
Magari hanno storie da raccontare… Anzi, di certo ne hanno. Probabilmente non storie di marinai e pirati come mi piacerebbe immaginare, ma insomma, mai dire mai.
E l’odore dei vicoli…
“Se sei in dubbio, Peregrino Tuc, segui il tuo naso!” Lo diceva Gandalf il Grigio (prima di diventare Bianco, eh!), e lui è uno degno di fiducia. Ecco, io il mio naso lo tengo in gran conto: nelle emozioni che provo gli odori hanno grande importanza, sono inneschi per pensieri, ricordi e detto affresco incasinato di cui parlavo prima. Quando Proust usa il profumo di una madeleine per sperimentare una nuova tecnica narrativa mica sceglieva un senso a caso!
Comunque, nei vicoli c’è odore di pasta all’arrabbiata. Di quella agliosa e prezzemolata. Mi ha sempre stupita questa cosa: io mi sarei aspettata basilico e pesto. E invece no: pasta all’arrabbiata. E pesce fritto, ovviamente. Ma il pesce fritto abita più verso il Porto Antico: venendo da Caricamento verso il centro c’è sull’angolo una friggitoria minuscola ma inflazionatissima che dota gli avventori di coni di carta gialla pieni di acciughe fritte, panissa, frisceu e delizie varie. Ecco, questa friggitoria, che io continuo a pensare sia quella dove sua nonna portava mia mamma quando era bambina, e anche se non posso esserne certa aggiunge un tocco simbolico alla cosa che mi piace un mondo, spande tutto attorno i suoi aromi, fiera vintage e odorosa.
Io sono piuttosto schifiltosa, di norma, e l’odore di cucinato mi urta…ma non questo. Questo nei pressi di Sottoripa ci sta talmente bene che se non ci fosse ne sentirei la mancanza.
L’altro ieri poi, che passeggiavo verso Boccadasse, e onestamente non mi ci metto nemmeno a cercare di descrivere che spettacolo proponga quel posto, perché siccome non sono De Andrè non trovo le parole (ma posso suggerire una canzone: per me Boccadasse è “Le acciughe fanno il pallone”), il cosmo ha voluto farmi un regalo: i colori erano quelli del post temporale, l’ora del giorno era il crepuscolo inoltrato verso la sera, l’odore era quello del mare, ma a tratti picchi di ristorante di pescatori reclamavano i loro istanti di gloria.
Totò parlava di attimini di dimenticanza.
Per me quello è stato un attimino di ricordanza: tutto il mio arazzo confuso, tutta la mia vita passata, nel suo ricordo indistinto mi ha fatto una carezza, e l’amarezza che era stata aveva ormai lasciato spazio alla dolcezza della memoria.