train

Fa caldo sul vagone. Un caldo da camino acceso però, non un caldo naturale. Anzi no, nemmeno da camino. Più da stufa, ecco. Vecchia stufa che brucia, irradiando attorno a sè un calore che fa quasi lacrimare gli occhi e che lascia repentinamente spazio al freddo dell’aria più lontana, ferma, quasi pietrificata.

L’arredamento interno è elegante, quasi eccessivo. Divanetti e poltrone in velluto rosso scuro sono disposti a gruppi di quattro, come un arbitro tra loro sta un tavolino rotondo di marmo scuro con venature bianche e verdi. Sopra al tavolino un candelabro di ottone a un solo braccio nel quale è alloggiata una candela semiconsumata, opera d’arte unica al mondo della vita che scorre con la sua cera colata e rappresa a formare finte pesanti gocce destinate a restare immabili fino a che la fiamma accesa non compirà di nuovo la sua magia.

Ai finestrini pesanti tende di broccato fanno bella mostra di sè. Danno l’impressione di essere imbevute delle parole e dei ricordi di tutti i passeggeri che hanno calpestato con i loro stivali o le loro belle scarpe eleganti il pavimento del treno.

Ci sono lampadari che diffondono una soffusa luce giallognola appesi al soffitto: ricordano il Liberty, con i loro complessi intrecci floreali. Sembrano impolverati però, bruniti dal tempo, anacronistici.

Fuori il panorama scorre veloce, non riesco a coglierlo con precisione. Sembra se non proprio selvaggio per lo meno selvatico. Foreste di pini o comunque conifere, profili di alberi aguzzi e profonde gole di pietra in lontananza fanno da scenografia allo sferragliare di questo treno bizzarro. Non so che ora sia, ma potremmo essere al tramonto, in quel momento in cui di colpo il sole, mentre si fa spazio come un guerriero ottomano tra le nubi plumbee e irregolari, con un ultimo bagliore sanguigno cede il passo alla notte.

Ci sono persone attorno a me, ma passano e vanno come ombre, fantasmi sospesi tra questa dimensione ed un’altra. Ci sono e non ci sono, contorni indefiniti che si muovono senza peso sul pavimento di legno scuro.

Mi guardo attorno, ma registro la loro presenza solo a margine. Non mi interessano. Non ricordo come sono arrivata qui, nè come. Però so che devo raggiungere l’uomo in fondo al vagone e sentire cosa mi deve dire.

Lo vedo, unica figura a fuoco in questo mare di polvere fluttuante. E’ integralmente vestito di nero, ha una giacca di fattura astrusa, spalle imbottite che ricordano l’armatura di un samurai e un copricapo che somiglia ad un colbacco.

Ha la pelle olivastra, barba nero corvina lunga che si confonde con la giacca dello stesso colore, leggermente crespa, e poderosi baffi finemente acconciati all’insù. Ha in mano un bicchiere trasparente contenente del liquido ambrato e lo porta lentamente alle labbra.

Mi siedo di fronte a lui. Come prevedevo, mi stava aspettando: sul tavolino rotondo c’è un secondo bicchiere pieno dello stesso liquido. Lo prendo e ne gusto un sorso: mi fa bruciare le labbra e la gola, potrebbe essere Cognac o Cointreau.

Con gli occhi resi leggermente appannati dal liquore osservo il mio dirimpettaio. Succederà qualcosa immagino. Come una sceneggiatura che non ricordo ma conosco so che ora lui mi dirà qualcosa.

Non ha fretta il turco apparentemente. Estrae dal taschino della sua bella giacca elegante (che ora noto essere ricamata colore su colore con motivi complicati e non facilmente riconoscibili) un gigantesco orologio a cipolla bombato. Lo apre e lo consulta, leggendoci dentro qualcosa che solo lui sa, perché da quel che posso vedere dalla mia angolazione lo strano artefatto è dotato di ben più di un quadrante e di monte lancette e ingranaggi a vista che danzano una coreografia perfetta e a me sconosciuta.

“Ragazza umana. Certe volte io vi trovo buffi. Bizzarri. Teneri quasi, nella vostra assoluta ingenuità. “Ammazzare il tempo”, voi dite, quando vi annoiate e vi lasciate scorrere addosso i secondi e i minuti, preziosa trama dorata del tessuto del mondo, dono che vi è concesso per un periodo limitato ma che apparentemente non riuscite a comprendere e godere.

Ammazzare il tempo voi dite, e io come dovrei sentirmi? Impaurito? Offeso forse? Schernito, non apprezzato?

No, ragazza umana. Divertito. Questo io sono: divertito. Divertito, perché, duro contrappasso involontario, alla fine sono sempre io che devo ammazzare voi, e quando con l’ultimo fiato implorate e desiderate ancora un secondo…nemmeno io posso concedervelo, e sono costretto dalle leggi universali a uccidervi, proprio io che tante volte in vita avreste dovuto ammazzare”

Si mette a ridere Il Tempo, e la sua risata sardonica si confonde con lo sferragliare del treno, che solo ora mi rendo conto ricordarmi il perfetto incedere di un metronomo.